di Gaia Moretti
Collana “Age Management. La diversità passa anche dall’età.”
Il falso mito gioventù = produttività
Qualche tempo fa, durante una presentazione di un libro, al momento delle domande del pubblico mi sono sentita chiedere: “Ma voi, a quale generazione appartenente anagraficamente? E a quale vi sentite di appartenere in realtà?”
Era una bella domanda, ma quella che trovo interessante è la risposta. Perché, da parte di quasi tutte noi, è stata: “Appartengo alla Gen X, ma mi sento una Gen Z”.
Non c’è niente di sbagliato nella risposta, sia chiaro. Ma mi ha interrogata, perché mi sembra dare voce ad un fenomeno che rilevo ogni giorno di più, e cioè che ci sentiamo sempre più giovani di quello che siamo. Togliendo da questo fenomeno il suo senso di realtà – se ci sentiamo più o meno giovani dipende da un numero incalcolabile di fattori, e ognuno di noi è padrone del suo sentire – mi sono però chiesta: non sarà che ci dobbiamo sentire giovani per forza?
Non sarà, cioè, che esiste un certo tipo di narrazione per cui è bene rimanere “giovani dentro” per sempre, perché in fondo se ammettiamo di essere invecchiati ammettiamo anche di essere più stanchi, più antichi, con meno cose da dire rispetto a chi giovane è realmente?
Il sentire comune per cui non bisogna invecchiare mai è storia antica, basti pensare a quanto questo “diktat” impatta nella vita delle donne, tanto per dirne una. Creme, trattamenti, escamotage, tutti pensati per mantenerci giovani per sempre. C’è in genere, io credo, un falso mito rispetto all’equazione gioventù = produttività. Se è vero che la generazione dei Boomers è quella che ha costruito l’economia di questo paese, e che continua a rimanere saldamente in posizioni manageriali e di potere, e se è vero che la Gen Z sta entrando nel mondo del lavoro con tutt’altro approccio, è però altrettanto vero che tutte le generazioni, non solo la più giovane e la più vecchia oggi, hanno caratteristiche peculiari, tutte preziose a livello sia sociale che aziendale.
È più produttivo un giovanissimo appena arrivato in azienda, pieno di energia ma forse povero di competenze, o un meno giovane con tanta esperienza in più ma meno energia?
Si risponderà che probabilmente il più giovane è il più energico ed è il più facile da formare, mentre il meno giovane è più esperto ma meno flessibile, meno aperto alla formazione continua.
E così facendo, si continueranno ad alimentare stereotipi sulle generazioni che, a livello di produttività, non ci portano da nessuna parte. È evidente che un sessantenne non ha, spesso, l’energia di un venticinquenne; ma il venticinquenne non ha le conoscenze del sessantenne, e in realtà ciò che per l’azienda sarebbe più produttivo è proprio un processo di inclusione (di mentoring e reverse mentoring, per dirne una) in cui entrambi possano lavorare insieme e scoprirsi nelle reciproche diversità. Insomma, se è vero che per produrre meglio è necessario lavorare meglio, i processi DEI (Diversity, Equity, Inclusion) sono l’unica soluzione per aumentare la produttività.
La sensibilità è interculturale e dinamica
Uno dei padri, almeno IMHO – nella mia modesta ed umile opinione, gergo dei primissimi anni 90 – della comunicazione interculturale, Milton Bennett, realizzò ormai molti anni fa un modello chiamato “Modello Dinamico di Sensibilità Interculturale – MDSI”. In sostanza, questo modello ci dice che la sensibilità culturale può attraversare varie fasi di crescita, e che si può raggiungere un miglioramento nel raffronto con le differenze culturali, spostandosi dall’etnocentrismo a quello che Bennett chiama “etnorelativismo”. Il concetto principale alla base del modello è quello che Bennett chiama “differenziazione”, ovvero il modo in cui un individuo sviluppa la capacità di riconoscere e convivere con le differenze. La differenziazione si riferisce a due fenomeni: il primo è che gli individui vedono una stessa cosa in modi diversi, il secondo è che anche le diverse culture offrono diversi modi per vedere le cose ed interpretare la realtà. La stessa cosa, aggiungo io, fanno le generazioni: ognuno di noi interpreta la realtà in un certo modo anzitutto in quanto individuo, e poi come membro di una cultura di riferimento e di una generazione, a cui apparterrà suo malgrado in funzione della sua età anagrafica.
Ora, l’ultima fase del modello è quella chiamata “dell’integrazione”: quella fase cioè in cui, dopo aver interiorizzato ed accettato che esistano schemi di riferimento diversi per ogni individuo, si cerca di integrare appunto tutti i diversi schemi in uno schema complesso e anch’esso diverso, che non faccia riferimento solo ad una delle cultura esaminate e che sia invece uno schema integrato che fa tesoro delle diversità culturali.
Questo presuppone una fortissima identità del singolo, di partenza, un processo di autoriflessione profondo, perché come possiamo pensare di comprendere qualcuno completamente diverso da noi, se non sappiamo chi è veramente questo “noi”?
E in azienda…?
Come possiamo riportare in azienda tutto questo? Intanto avviando dei processi di DEI (Diversity, Equity, Inclusion) che siano reali, che facciano lavorare insieme le persone per scoprirle, e anche un pò per aiutarle a scoprirsi. Processi, e ce ne sono di virtuosi da esaminare, nei quali ognuno possa mettere a frutto ciò che è e ciò che vuole essere, senza paura degli inevitabili stereotipi cui sarà sottoposto dagli altri, ma con la consapevolezza che quegli stereotipi possono essere scardinati dalla relazione.
Allora forse, in un processo di questo tipo, potremmo scoprire che va bene avere l’età che abbiamo, che non è vero che siamo sempre o troppo vecchi o troppo giovani, e non è vero che dobbiamo sentirci sempre più giovani di quel che siamo.
Potremmo addirittura scoprire che siamo produttivi perché siamo noi stessi e non perché apparteniamo ad una generazione o all’altra; e che la nostra esperienza e la nostra appartenenza generazione hanno un senso proprio perché sono le nostre.
Ecco, alla domanda di partenza io credo allora che riuscirei a rispondere (per adesso!): “Xennial, e tutto sommato soddisfatta”.
Bibliografia
IL VALORE NON HA ETÀ: Persone e organizzazioni oltre il divario generazionale, 2024, EgeaEditore
Gaia Morettil
Classe 1983, Xennial soddisfatta. Sceneggiatrice e consulente DEI (Diversity, Equity, Inclusion), socia fondatrice di Webreak production. Già docente di comunicazione interculturale, oggi scrive e produce cortometraggi, spot, documentari e lungometraggi, tutte cose che crede parlino di diversità.
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