di Giulia Tossici
Collana “Age Management. La diversità passa anche dall’età.”
Non è solo una questione anagrafica!
“Una generazione dura fino a quando non ne compare una nuova che da essa si differenzia” sottolinea saggiamente la voce “Generazioni” dell’Enciclopedia delle scienze sociali (Cavalli, 1994). Un’affermazione che può sembrare all’apparenza banale, e che però così scontata non è.
Ancora troppo spesso si tende a ridurre l’appartenenza generazionale a una questione anagrafica. L’anno di nascita, cioè, determinerebbe tout court tutta una serie di caratteristiche legate ad una determinata epoca, con la sua cultura, il clima sociale e politico, i valori dominanti, gli usi e costumi. Tirando una riga più o meno ogni vent’anni, difficilmente ci si potrebbe sbagliare.
E invece, le cose non stanno proprio così. Pensate solo alla difficoltà dei primi Gen X (quelli nati nell’ultima metà degli anni ‘60) a trovare una propria identità specifica, rispetto al paradigma luminoso e, diciamocelo, un po’ accecante dei Baby Boomers. Questo effetto-alone ha rischiato di silenziare un’intera generazione – non a caso, ai primordi definita come “generazione invisibile” – tanto era forte l’attrattività e la distintività dell’orizzonte valoriale e culturale della generazione cresciuta subito dopo la guerra. Ancora oggi, spesso, nella società come sul lavoro non è facile vedere i confini e le differenze tra queste due generazioni, i Boomers e la Gen X, che sono portatrici invece di aspetti sicuramente comuni ma anche di notevoli e radicali differenze.
Senza la Gen X, per dirne una, difficilmente si sarebbe avviata quella rivoluzione totale che ha portato a ripensare, in termini molto più fluidi e permeabili, la relazione tra dimensione personale e professionale, la persona che sono a casa e nel mio tempo libero e il/la professionista che sono sul lavoro. Questa rivoluzione silenziosa, avviata dalla Gen X che ha attivamente cercato un equilibrio diverso tra vita e lavoro, e riconosciuto una nuova centralità alla dimensione privata e familiare, è passata a lungo inosservata, fino a quando i Millennials e ancor più i giovanissimi Gen Z l’hanno esplicitata e imposta come nuovo paradigma apertamente alternativo rispetto alla compartimentazione tipica dell’epoca dei Boomers. Tanto che oggi, parlare di “transilienza” – ovvero della capacità di mettere in comunicazione le competenze personali e quelle professionali – è uno dei nuovi mantra del pensiero organizzativo e dell’inclusione in generale.
Ma pensate anche all’effetto-split che la parola “giovani” produce di norma nelle organizzazioni (e non meno nella società), in cui Millennials e Gen Z sembrano un unico monolite e le differenze, invece profondissime, tra queste due culture generazionali vengono a perdersi di fronte al bisogno di avere un parametro unico su cui fondare le proprie generalizzazioni. Questa visione così semplificata restituisce spesso un profilo che alimenta tantissime conversazioni aziendali sui famigerati “giovani” (in pratica, tutti gli under 35): innovativi, certo, digitali, tantissimo, con tante idee ma… anche tanto frettolosi e incapaci di aspettare il loro turno, tendenzialmente superficiali e poco propensi a entrare nel dettaglio delle cose, tecnodipendenti e intossicati di loro smartphone, tendenzialmente incostanti e impazienti, sempre col piede sulla porta se qualcosa va storto o non va come vorrebbero loro, allergici alle regole e agli organigrammi e molto poco disposti a fare sacrifici per un’organizzazione da cui si aspettano di prendere molto prima di dare.
Diverse spinte, altri valori, una stessa domanda
Le cose però sono (per fortuna) più sfumate e complesse di così. Basta farsi un giro su Internet e guardare i meme con cui gli Zeta prendono in giro i cugini più grandi Millennials, per il loro uso narcisistico e edonistico dei social, o per quell’idealismo che tanto differisce dal senso pragmatico e dalla concretezza degli Zeta, che nelle organizzazioni chiedono sempre meno il permesso ai capi e ai colleghi più senior, e si fanno molti meno scrupoli della generazione che li ha preceduti a dire dei sonori “no”. O anche a come queste due generazioni, pur ponendo entrambe una domanda nuova alle organizzazioni (“c’è qualcosa per me qui?”) siano motivate e attratte da valori diversi, obiettivi diversi e, inevitabilmente, strumenti diversi rispetto all’employee-experience.
Non cogliere queste differenze significa, per il management come per la funzione HR, non riuscire a sintonizzarsi in modo efficace e rispondere alle esigenze reali delle persone con delle ricette pre-confezionate e adatte ad altre culture generazionali.
Questi esempi, quindi, ci dicono molto della necessità di partire da tre consapevolezze, se vogliamo iniziare a capirci qualcosa in tema di ageismo:
- che parlare di generazioni e parlare di età non è affatto la stessa cosa
- che il tema della diversità generazionale non è in sé e per sé un tema anagrafico ma piuttosto culturale
- che sostituire la domanda sulle differenze legate all’età con quella sulle differenze generazionali è il primo passo per trovare nuovi riferimenti e nuovi parametri per far nascere nuovi pensieri e quindi nuovi comportamenti, più capaci di intercettare bisogni e aspettative, con leve appropriate ed efficaci.
Questo richiede, però, di sottrarci alle gabbie del pensiero, che tende – per lo più senza che ce ne accorgiamo – a dividere in due il mondo: in questo caso, i giovani da un lato e tutti gli altri, dall’altro.
Senior e junior, un ancoraggio da rivedere
Questo modo di pensare è l’esito più estremo ma anche più rassicurante delle generalizzazioni stereotipate che ci aiutano a pensare in modo economico, efficace, rapido e sicuro. E però (piccolo particolare), quasi sempre in bianco e nero.
Un primo passo, concreto, per muoversi in questa direzione è rivedere il modo in cui siamo soliti distinguere, all’interno delle aziende, le persone “senior” da quelle “junior”. Quanto spesso accade, infatti, che la “seniority” venga legata più che a un tema di competenza nel ruolo di per sé, al numero di anni in cui quella competenza è stata esercitata, rafforzata dal numero di anni della persona che l’ha esercitata? Insomma, è vero o non è vero, che il concetto più diffuso di seniority in azienda è ancora in larga parte solo un concetto anagrafico? Tanto che (e non a caso), uno dei refrain più diffusi delle nuovissime generazioni che si affacciano in azienda (in particolare, la Gen Z) è di vedere valorizzate le idee e il contributo che si apporta all’organizzazione indipendentemente dall’età delle persone o, come si sente dire più spesso, dalla sola seniority.
Iniziare a ragionare su questi impliciti del nostro pensiero e dei funzionamenti aziendali rappresenta una condizione importante per aprire, all’interno delle organizzazioni, l’esplorazione delle differenze generazionali, slegandole da una dimensione anagrafica cui sono certamente legate ma a cui non possono essere unicamente ridotte.
È o non è questo un esercizio pratico e un allenamento quotidiano al pensiero della diversity?
Bibliografia
IL VALORE NON HA ETÀ: Persone e organizzazioni oltre il divario generazionale, 2024, EgeaEditore
Giulia Tossici
Psicologa iscritta all’albo e docente universitaria, svolgo attività di ricerca e di insegnamento sui temi legati alle emozioni, lo stress e le euristiche inconsce, con un focus orientato al Diversity Management e al benessere psicologico. Con alle spalle una lunga esperienza in HR e nella formazione in contesti organizzativi multinazionali, in qualità di advisor e consulente aiuto le organizzazioni nell’introduzione di metodologie, strategie e programmi di People Development e DE&I, realizzo interventi di change management e progetti di formazione. A partire da ottobre 2023 svolgo questo ruolo in ambito istituzionale, all’interno del Consiglio Pari Opportunità della Lombardia, di cui sono membro e vicepresidente. Giornalista pubblicista e autrice di libri e saggi, tra cui il più recente “Il valore non ha età. Persone e organizzazioni oltre il divario generazionale” (Egea, 2024), pubblico articoli su riviste specializzate nel campo della filosofia, della psicologia, della PNEI e del Diversity Management.
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